The Monks

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  1. TremoloDental
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    Nella maggior parte dei casi, un cult non diventa automaticamente una pietra miliare, ma “Black Monk Time” fa storia a sé, perché nessun disco di quell’epoca suona così malato, pur non rinnegando in toto il pop del proprio tempo. Infatti, nella formula sonora ingegnata dai Monks sono rintracciabili scorie di quella che era la moda musicale dei primi anni Sessanta, il beat; solo che si tratta di un beat traviato, ritmicamente tribale e melodicamente insano. In pratica, nel momento in cui il beat, dopo aver raggiunto il suo momento d’oro, stava per essere accantonato dai più, arrivò “Black Monk Time” a coniarne una nuova versione, più visionaria e oscura: ci sono fuzz chitarristici e bassi distorti da pionierismo del noise; ci sono organi da messa nera psichedelica in anticipo su Doors e Pink Floyd (scusate se è poco!); infine, ci sono bizzarrie disarmoniche (fantastica è l’idea di elettrificare un banjo a sei corde, distorcendone il timbro) che saranno sviluppate pienamente nel kraut-rock di Faust e Can.

    Ma chi erano i Monks? Dei personaggi non del tutto sani di mente, verrebbe da dire: cinque soldati americani dall’abbigliamento austero (lungo saio nero) e dall’hair-style dogmatico (tonsura monacale), da cui il nome Monks, “monaci”. I cinque marines si erano conosciuti nei presidi militari americani della Germania Occidentale, dove vivevano e dove diedero vita alla prima forma embrionale della band: i Five Torquays. Furono due giovani manager tedeschi, Walther Niemann e Karl-Heinz Remy, in cerca di nuovi fenomeni musicali, a consigliare ai Five Torquays di cambiare ragione sociale e rifarsi il look. Da allora Gary Burger (voce e chitarra), Larry Clark (organo), Roger Johnston (batteria), Eddie Shaw (basso) e Dave Day (banjo) più che una band, divennero, insieme ai loro due manager, una vera e propria comune artistica, che univa all’innovativa proposta musicale stimolanti riferimenti alle avanguardie artistiche, dalla poesia non-sense dadaista, nei testi delle canzoni, alla pittura suprematista dell’artista russo Kasmir Malevič, nella grafica di copertina dell'album.

    Pietra miliare del rock sperimentale e della controcultura pop. Grato di averlo scoperto.



     
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  2. Azpilicueta
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    Bravissimo Tremolo che ci propone una indimenticabile perla del rock psichedelico tedesco. Giusti tutti i riferimenti fatti nell'introduzione (ben scritta, complimenti). Il banjo elettrico di Dave Day per l'epoca era una vero stupro ed è questo uno dei fattori chiave ad aver reso unico l'ensemble musico-artistoide dei Monks. Quanto al disco è semplicemente un capolavoro, sia concettualmente che musicalmente, animato da un'ironia e una vena dissacrante che va a demolire i fenomeni pop del periodo senza rinnegarne però il linguaggio e la fruibilità; un po' quello che farà Frank Zappa nei primi anni di carriera.
     
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  3. magick g.
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    Non so che aggiungere, se non che è l'unico disco che ha a che fare col garage che mi piace interamente.

    No forse ci sono i Sonics.
     
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  4. Azpilicueta
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    QUOTE (magick g. @ 27/9/2012, 21:49) 
    No forse ci sono i Sonics.

    E i The Seeds.
     
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  5. magick g.
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    Neanche troppo.
    Io col garage ho un rapporto strano: mi piace il suono, mi piace la demenza ormonale, ma sono poche le volte che finisco per intero un album (o anche una compilation tipo Nuggets o Garage Punk Unknonwns).

    Comunque sia ti voglio carico per quando aprirò il thread sui Kinks.
     
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  6. evivsseh
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    Mai sentiti, però a sto punto mi incuriosite :)

    C'è solo quell'album da sentire?
     
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5 replies since 27/9/2012, 19:51   91 views
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